I

La produzione poetica degli anni ortisiani

Nella linea critica tradizionale Odi e sonetti vengono posti a stabilire un secondo momento nello sviluppo della personalità artistica foscoliana fra Ortis e Sepolcri e legati, le prime, ad una specie di risveglio della vitalità giovanile dopo l’ingorgo pessimistico dell’Ortis, i secondi, ad uno sviluppo di temi ortisiani accentrati nell’amore per Teresa – Isabella Roncioni – o in meditazioni che dal contesto prosastico e drammatico dell’Ortis si liberano in perfezione lirica e in distaccata serenità. E indubbiamente la loro stessa natura di “liriche” organiche di fronte alla prosa poetica dell’Ortis ed alla sua complessità di motivi e di direzioni contribuisce a farne un momento idealmente posteriore allo sforzo del romanzo epistolare. E contribuisce ad isolare dopo l’Ortis specialmente i Sonetti la stessa intenzione foscoliana che ne fece una serie, un ciclo continuo nelle tre edizioni dal 1802 al 1803[1] dopo la pubblicazione definitiva dell’Ortis e prima di quella del Commento alla Chioma di Berenice.

Ma in realtà non solo la cronologia, bensí anche le origini, le occasioni, gli attacchi sentimentali in questi anni di complessa maturazione, di espressione e di esperienza insieme confuse, prima del piú saldo piano di distacco dei Sepolcri o delle Grazie, inducono a considerare Odi e Sonetti in un doppio legame essenziale: uno che li collega come esperienza lirica e tecnica, uno che li inserisce a gruppi o singolarmente negli anni ortisiani, in relazione allo sviluppo stesso dell’Ortis secondo, nel senso e poi sul margine di questa essenziale esperienza giovanile. Viene poi il Carteggio con la Fagnani Arese[2] ad intrecciarsi con lo stesso riferimento dell’Ortis e ad offrire appoggio e occasione alla nascita degli ultimi Sonetti e della grande ode.

E l’abilità di lettura che voglia ridursi a commento puntuale, senza adagiarsi nella tradizionale successione Ortis, Odi, Sonetti, che falsa la stessa ricchezza del momento ortisiano, consisterà nel mantenere questa duplice prospettiva sul legame dei sonetti e delle Odi fra di loro e sulla loro nascita entro momenti di sviluppo piú generale nella intricata selva della gioventú foscoliana, nel considerare questa opera poetica anche fuori di una “serie” ideale, conclusa, quasi poematica come piacque al Chiarini che per i sonetti parlò di «una specie di poema sinfonico, di cui il magnifico sonetto Alla sera è il preludio e gli altri tre sonetti [maggiori] il finale tragico e doloroso»[3]. Certo l’influenza dello stesso Ortis, autoritratto drammatico, dové spingere il Foscolo a cercare un ordine non casuale e non puramente cronologico ai suoi sonetti, ma tale ordine è soprattutto un elemento di riprova della volontà organizzatrice del Foscolo proprio negli anni 1802-1803, a sistemazione e rinforzo, in forme concluse ed ideali, delle esperienze giovanili, secondo la vasta tendenza foscoliana di organizzare e rinnovare costruttivamente espressioni di sé nate indipendentemente e quindi doppiamente considerabili nella loro genuina funzione e nella loro rinnovata vita compositiva.

Certo è che la prima ode e i sonetti minori si inseriscono sicuramente nel periodo di incubazione e di rifacimento dell’Ortis maggiore, mentre i sonetti maggiori e la grande ode sorgono e vivono sulla realizzazione già ottenuta dell’Ortis, si distaccano al di sopra delle prove piú alte della seconda parte del romanzo e insieme si appoggiano a pagine e motivi del Carteggio Arese che si intrecciano a motivi ortisiani e li rinnovano con punte piú decise verso una concezione della vita meno cupamente drammatica, verso una concezione della poesia meno violentemente romantica.

Non si può dire che il sonetto III Per la sentenza capitale proposta nel Gran Consiglio Cisalpino contro la lingua latina (databile 1798 e corrispondente alle lamentele dell’Esame su le accuse a V. Monti[4]) sia gran che migliore di quello alfierianeggiante per la neutralità veneziana del 1796 e certo l’apparente solennità mal ricopre la sostanziale fiacchezza in forma magniloquente:

Te nudrice alle Muse, ospite e Dea

le barbariche genti che ti han doma

nomavan tutte; e quanto a noi pur fea

lieve la varia, antiqua, infame soma.

chè se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea

ti han morto il senno e il valor di Roma,

in te viveva il gran dir che avvolgea,

regali allori alla servil tua chioma.

Ora ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste

reliquie estreme di cotanto impero;

anzi il toscano tuo parlar celeste

ognor piú stempra nel sermon straniero,

onde, piú che di tua divisa veste,

sia il vincitor di tua barbarie altero.

Il sonetto si ricollega alla forma di eloquenza delle poesie del 1795-1797 (che avevano però nelle due Odi movimento di maggiore interesse nelle descrizioni rapsodiche storiche) ed allo sforzo oratorio del «tribuno» dei clubs veneziani e cisalpini, al suo motivo centrale nazionalromantico nuovo per il suo vigoroso riferimento ad una concezione della nazione indipendente e libera per propria forza che si congiunge con piú chiarezza alle intuizioni alfieriane, ma mescolato con vecchi motivi retorici di origine accademica settecentesca che spesso non ben si distinguono anche in coloro che parlavano in nome di una spinta piú profonda e storica e non facilmente squalificabile come reazionaria.

Il contrasto intimo fra un sentimento nuovo e un sentimento letterario e caduco (quello dei Vannetti e dei retori malati di esteriore classicismo) si riflette in un’onda eloquente che solo dall’esterno arieggia un vero rinnovamento lirico e avvolge in espressioni vacuamente grandiose spunti piú intimi e vitali. Cosí il motivo della lingua come motivo di gloria italiana e come punto di certezza della vitalità della tradizione italiana si svolge però in una visione esteriore della grandezza romana ed in una esaltazione dell’eloquenza ben lontana dai movimenti genuini con cui il Foscolo nella prolusione parlerà del valore sacro e civile della lingua. Spunto vivo e convenzione morta si mescolano in una forma incerta sotto l’apparenza sicura dei movimenti stringati ed elastici del sonetto in cui l’abbondanza delle Odi precedenti doveva trovare una piú dinamica compostezza. La ricchezza scandita di aggettivi davanti al nome

(la varia, antiqua, infame soma),

la ripetizione delle cause della decadenza italiana

(ché se i tuoi vizi, e gli anni e sorte rea)

non sono che abbondanza verbale e gli stessi suoni e parole ricercati per gravità (doma, soma) e le rime «fea, rea, avvolgea» ricadono flaccidi e vuoti[5], come le mosse pregne di solennità e appoggiate a prosopopee altisonanti

(in te viveva il gran dir che avvolgea

regali allori alla servil tua chioma)

arieggiano un movimento oratorio piú montiano che alfieriano ed indicano proprio l’entrata di servizio di tanta facile sonorità che il piú maturo Foscolo supererà in un autentico senso del grandioso nel centro stesso del valore religioso e civile della parola. Qui veramente, e specie nelle due quartine atteggiate e sonanti di fronte alle quali le terzine hanno una mossa piú vivace pur ricadendo in questo fastidioso corteo di consecutive, di «onde», di congiunzioni che altrove assumeranno ben diversa funzione poetica da quella che hanno in questo sonetto cosí esteriormente abile, cosí intimamente povero. Né può considerarsi un compenso adeguato l’osservazione che nella prima quartina si delinea quel primato della poesia e quell’immagine dell’Italia, sede delle Muse (venute di Grecia), che saranno motivi fondamentali nelle Grazie.

Ma è nel periodo dell’«assedio di Genova», in un momento non di «guarigione» o di sicuro superamento, ma di intrecciato motivo di vitalità gioiosa, di evasione dal regno ortisiano del cupo dramma, che appare improvvisamente con un balzo di conquista poetica e di sicurezza personale (per quanto unilaterale e provvisoria) l’ode alla Pallavicini.

Sul motivo dei «giorni perseguitati ed afflitti» della dedica del ’94, che si esprimerà con nuova forza nei Sonetti e nell’Ortis maggiore, riaffiora il motivo dell’«amabile bellezza» cosí ingenuamente e scolasticamente acquisito nelle prime odicine e pur facilmente personalizzato in accento di convinzione istintiva, di culto non artificioso, riaffiora quella dimensione di eleganza neoclassica apparsa in alcuni momenti del poemetto La Giustizia e la Pietà ed involta in un clima di ironia a metà compiaciuta e a metà sprezzante delle lettere padovane del primo Ortis, dove la dama veneziana compare come una dea in una ambigua relazione di ammirazione dell’eleganza e di ironia del giovane moralista romantico con chiaro residuo di sapore savioliano e pariniano.

Ma insomma quel metodo di «deificazione» di cui parlava già il Pecchio[6] (e che è diventato naturalmente luogo comune della critica e base delle piú acute e raffinate interpretazioni delle due Odi) era stato iniziato già nelle pagine del primo Ortis e doveva poi, diventato veramente processo di culto estatico e romanticizzato dal riflesso della fatale sventura, riprodursi nella stessa figura della seconda Teresa e mitizzarsi in maniera piú personale nella grande ode All’amica risanata.

Anche quest’ode dunque, pur nella sua novità originale, nella sua freschezza inventiva, nei suoi risultati cosí ricchi e sicuri (tanto da doversi considerare la prima poesia veramente riuscita del Foscolo), non è completamente una gratuita sorpresa, né d’altra parte rappresenta un sicuro superamento del mondo agitato e angoscioso ortisiano che fra l’altro – malgrado questa pretesa guarigione dal pessimismo e dall’angoscia – torna a presentarsi in maggiore violenza e coerenza proprio nella redazione del 1801-1802. Certo nel secondo Ortis va calcolata la volontà di creare dramma e non solo sfogo scomposto come può apparire ad una lettura ingenua e certo nel Carteggio Arese filosofia e politica scompaiono tutte assorbite dall’Ortis, ma d’altra parte nel Carteggio l’atteggiamento drammatico è ancora parzialmente presente e nello stesso Ortis la forza e la volontà comparativa che in qualche caso può avere accentuato i toni estremi (specie nella seconda parte) non esclude una nuova ondata di personale agitazione che altri chiamerebbe impropriamente “malattia”. In realtà non si tratta di guarigione e malattia (ed ha ragione in questo senso L. Russo[7] che dice il Foscolo «sempre malato e sempre guarito»), ma di atteggiamento dell’anima e della poesia legato ad un complesso sviluppo di toni fondamentali che nell’esperienza della vita e della storia si presentano, si intrecciano, si maturano e trovano espressione là dove una adeguata capacità stilistica offre loro una vita intera e formale.

L’ode alla Pallavicini è l’espressione felice e geniale di una pausa (con dentro la radice di un senso della vita come piacere, come pienezza di vitalità, e resta essenziale alla poesia foscoliana insieme al processo di mitizzazione al gusto del visivo espresso con tanta vivacità dopo i timidi accenni precedenti) fra l’Ortis e Ortis, uno sviluppo unilaterale, fra idillico-elegiaco e drammatico, eloquenza storica e personale, di motivi già affiorati nel primo Ortis in limiti precisi di «bello stile» e qui – in una felice occasione, su di uno spunto di condizione eccezionale (vita mondana entro una cornice di guerra e di preoccupazione) – liberati con forza tanto piú esplosiva.

Non dunque “guarigione”, ma semmai “evasione”, in un intervallo particolare, è un mondo drammatico con l’acquisto di una dimensione nuova sulla poesia foscoliana, di una via su cui le esperienze piú profonde e piú valide verranno piú tardi a fondersi con tutt’altra ampiezza. E si noti, non solo “evasione” dall’insecuritas personale e storica con ciò che tale termine comporta di pericolosamente estetistico (limite che si andrà bruciando nella grande ode, e nelle Grazie attraverso Sonetti e Sepolcri in una particolare, irripetibile condizione spirituale foscoliana), e di forza di superamento delle sbavature sentimentali e del brutale contenutismo, perché tale evasione nel regno del bel mito e della poesia si attua partendo da un fatto, da un pretesto, non da un semplice sogno, anche se il fatto non passa attraverso il sentimento piú profondo e rimane fra troppo esteriore e pratico (il Foscolo abolí poi l’eccesso realistico e la stessa determinazione di cronaca del titolo sulla riviera di Sestri) e troppo rapidamente trasformato in vicenda fantastica senza quell’alone di comprensione, di simpatia che esso comportava. Manca il «calore di fiamma lontana» che presuppone una prima esperienza passionale qui assente e la storia ideale della bellezza, non è passato attraverso una profonda storia personale maturata in esperienze sentimentali e poetiche omogenee.

D’altra parte la genesi dell’ode non è solo in questa direzione di evasione sentimentale in un rifugio di bellezza pure avvivato dalla sensualità e meglio dalla sensualità come esponente di vitalità, in contrasto con il mondo cupo dell’Ortis, ma è anche sicuramente in un improvviso rifluire nella memoria foscoliana di esperienze letterarie, di immaginazioni, di fantasticherie classicistiche sul filo del culto della bellezza superiore ad ogni caducità, affermato qui con baldanza piú che con matura profondità.

Nella fantasia foscoliana l’urgere di questa gioia vitale, sentita nella particolare condizione dell’«assedio di Genova», l’accoglimento di un ritmo mondano ed elegante (il Foscolo non si “rinselva” come l’Alfieri e la sua solitudine è sempre bilanciata da sete di vita mondana o assediata da immagini di eleganza che il mondo napoleonico gli offriva come equivalente tout court di vita socievole) coincisero con una esigenza di stile, di linguaggio e l’eleganza diremmo bisognosa di stilizzazione classicistica come l’immagine della bellezza immortale trovava naturale una trasfigurazione mitologica. Tutta la sua cultura classica, con il suo fondo latino-greco (e la mediazione della prima attività di traduttore) e con il suo strato piú recente e vicino del neoclassicismo settecentesco (il Savioli, il Parini delle Odi galanti, il Bertola delle piccole odi), si aprí al calore di questa urgenza poetica, rivelò la sua ricchezza e le sue offerte stilistiche, la sua lezione di forma conclusa, di espressione nitida ed elegante della realtà moderna nelle sue direzioni omogenee (eleganza, edonismo). Il classicismo settecentesco del Savioli, degli emiliani e di un particolare Bertola, del Parini galante (Pericolo, Dono, ecc.) o, fra contemporanei, del Lamberti.

Quella lezione di stile («bello stile» dirà poi nell’Ortis 1802 per isolare meglio un’esperienza non rifiutata, ma parziale e certo parentetica rispetto al dramma lirico) era stata già sentita dal Foscolo nell’Ortis bolognese (lettera XVII padovana), e in quella pagina singolarmente misurata e settecentesca ironia ed eleganza si erano fuse su modelli savioliani e pariniani (anche il Parini del Giorno) intorno alla figurina della dama-dea, tentatrice, leziosa, ma a suo modo affascinante ed accarezzata fino al particolare del piede «simile a quello che l’Albano dipingerebbe a una Grazia ch’esce dal bagno». Ma in quella pagina la seduzione era bandita da un’altra immagine piú alta, quella di Teresa (la bella celeste) («mi ricordo che non avrei osato respirar l’aria che la circondava, e tutti tutti i miei pensieri si univano riverenti e paurosi soltanto per adorarla...»), mentre qui l’abbandono all’ammirazione della bellezza è libero e schietto. E di nuovo abbiamo toccato la forza e il limite di questa ode. Come la stessa presenza cosí pronta e numerosa dei modelli classicisti pur dominati e foscolizzati (dalle immagini, a frasi elette, piene di linguaggio, al ritmo e al metro) è per noi l’indice di una importanza dell’ode anche in sede di poetica (la presa di coscienza immediata da parte del Foscolo, prima della meditazione della Chioma di Berenice, della cultura poetica classicistica e neoclassica, dell’uso che il poeta poteva farne sia pure in un caso che allora poteva parergli limitato e provvisorio) e insieme il segno di un limite nella coincidenza fra il sentimento edonistico e colorito della bellezza nel Foscolo del 1800 e una forma poetica che non era arrivata al di là di quella misura di sentimenti e di espressione.

Prima di quest’ode, a parte la pagina importantissima della lettera XVII, ricca di spunti ironici che servirono al Foscolo anche come direzione didimea, il classicismo si era offerto al Foscolo nelle esili forme delle odicine della raccolta Naranzi o come espressione di eloquenza poetica nelle Odi politiche e nella Giustizia e la Pietà, in figurazioni mitiche e misurato descrittivismo pariniano. Ma qui all’esplosione di una gioia vitale parziale, ma originale e genuina (legata ad una intuizione della vita in questo lato elegante, moderno, sensuale tanto piú gioiosa perché in contrasto con la insecuritas della «empia licenza e Marte»), segue e corrisponde una scoperta letteraria di mezzi, di gusto, di offerte di un gusto e di un’attuata poetica.

Qui né dramma né eloquenza, qui non piú impasto di esperienze preromantiche e classicistiche: nella confusione giovanile del Piano di studi Savioli e Young convivevano, qui la scuola del Savioli e dei saviolani, del Parini e dei pariniani, dell’«Anno Poetico»[8] del Lamberti, del Bertola delle Odi, è tutta presente e tutta isolata con le sue suggestioni di uso edonistico ed elegante della mitologia, di metri rapidi, brevi e conclusi di figure incise, di linguaggio colorito e brillante: tutto naturalmente viene teso dal piglio foscoliano sempre a suo modo impetuoso e scattante (qui gioioso), da una freschezza ben diversamente originale, ma la scelta univoca dei modelli utilizzati non lascia dubbi sulla volontà foscoliana, che in questa rara occasione di coincidenza ha usufruito delle offerte del classicismo settecentesco preparando una strada importante per future esperienze.

Per il Savioli basta citare l’ode Il Mattino e risentire sul ritmo piú monotono, ma simile per conclusione e ricerca di brillante evidenza, quadretti come questi:

Tal da’ superbi talami

dell’ampia reggia Achea

sciolta dal caro Pelope

Ippodamia sorgea...

oppure:

Arser d’amara invidia

poi le Dardanie spose:

arse d’amor Deifobo,

ma il foco incesto ascose...

oppure:

A te le Grazie nutrono

leggiadra amabil figlia.

E il Savioli offre anche il tipo di clausola mitologica, di cronaca mondana ed elegante sollevata nella figurazione mitica, mentre spunti di versi e cadenze, immagini si possono ritrarre nel Bertola galante e classicistico:

Le Grazie il letto apprestano...

Sul talamo beato...

(Opere, Bassano 1785, pp. 37, 177) o nel Parini del Pericolo:

(Parve e mirar nel volto

e ne le membra Pallade,

quando l’elmo a sé tolto,

fin sopra il fianco scorrere

si lascia il lungo crin)

o del Dono con il quadretto di Adone morente:

Caro dolore e specie

gradevol di spavento

è mirar finto in tavola

e squallido e di lento

sangue rigato il giovane

che dal crudo cinghiale ucciso fu.

Ma sovra lui se pendere

la madre degli Amori,

cingendol con le rosee

braccia si vede, i cori

oh quanto allor si sentono

di giocondo tumulto agitar piú!

E sulla scia savioliana-pariniana il Lamberti, di cui il Foscolo ebbe presente l’ode I cocchi (e vicino ad essi per un’aura di suono rapido e per l’intervento delle «dive» anche l’ode il Bagno), scritti appunto per un simile avvenimento; non solo c’è l’offerta del brutto e ironico «Pera chi osò primier» che apre l’ode, ma anche parole riferite al corsiero «indocile», alla «infedel quadriga» e, per la parte centrale dell’impennamento del cavallo, il mito centrale dell’ode: Ippolito e i cavalli infuriati alla vista di un toro mostruoso:

né piú il flagel sentivo,

o il noto suon delle animose voci,

quindi sbattendo i rabbuffati colli,

per la gran tema folli,

si disserrâr forzando e briglia e morso,

precipitosi al corso.

Infine fra gli altri ricordi di classicismo settecentesco dominato dalla vicinanza agli alessandrini va considerata la traduzione del Pagnini di Teocrito, Mosco, Bione (Parma 1780 e seconda edizione 1792), in cui il Foscolo dové leggere con molta attenzione (tanto che se ne ricordò nel Commento alla Chioma di Berenice e nei Sepolcri, dove riprese dal III di Mosco l’espressione «il dolce di Calliope labbro») ed in cui sentí l’utilizzabilità del Canto funebre di Adone di Bione (con qualche spunto anche dall’idillio Sopra Adone morto di Teocrito, almeno per l’inizio:

Allor che Citerea

vide già spento Adone,

con rabbuffato crine,

e scolorita guancia).

Anche senza insistere esageratamente su questo contatto e su approfondimenti mitici lontani dalle intenzioni di questa ode, è indubbio (e in tal senso va lodato il Goffis che qui ha insistito su questa utilizzazione di una traduzione settecentesca[9]) che la prima parte dell’ode risente in maniera particolare del quadro di Venere in cerca di Adone e del compianto degli amori intorno al cadavere insanguinato:

Venere sparsa le chiome, afflitta, incolta,

e scalza va per le foreste errando,

i rovi le tormentano le piante,

e predan l’almo sangue. Ella mettendo

acute strida va per lunghe valli.

(II, 73).

Gli amori circondano Venere e Adone e si danno da fare per lavarlo e prepararlo per la sepoltura:

Aspergil’anco

e di mirti, e di balsami, e d’unguenti,

ogni balsamo pera or che perio

il tuo balsamo Adon...

Altri in catini d’oro appresta l’acqua,

altri i fianchi gli lava, ed altri a tergo

coll’agitar dei vanni a lui fa vento.

(79, 80).

Suggestioni mitologiche che si incontrano con suggestioni figurative delle tavole ercolanensi e che meglio concludono l’ambiente culturale ancora settecentesco che il Foscolo risentí nel comporre la sua ode originale e fresca, ma ben lontana dalla profondità e dalla novità personale dell’ode milanese.

Né si dimentichi che l’ode concepita nella primavera del 1800 (quando già la Pallavicini era caduta da cavallo da vari mesi) nasce in un ambiente elegante e mondano in cui i giovani ufficiali della legione cisalpina mescolavano galanterie e letteratura in poemetti ed odi in cui abbondavano facili ricordi mitologici, figurazioni di bellezza in atteggiamenti olimpici ed echi di cronaca frivola e scherzosa. Cosí l’ode uscí in una raccolta di poesie in omaggio alla Pallavicini; e, anteriormente, il Petracchi e il Ceroni avevano cantato la bella signora genovese e il secondo in un poemetto a chiave Il Pappagalletto dopo aver ricordato il Foscolo quale «fringuello dell’Adria» aveva dedicato un’ottava all’incidente che dette lo spunto all’ode:

Vedi là quella candida Palomba

ch’ha le piume scomposte e rabbuffate?

Ahi, l’infelice d’alto ramo piomba

e ne porta le tempie insanguinate!

Come tanta beltà scontri la tomba

si dolgono le Grazie desolate:

gioia delle rivali in fronte è sculta,

ma non men vaga sorge e l’altre insulta.

L’intonazione neoclassica in direzione edonistica è dunque quella che dai testi settecenteschi[10] a quelli della moda contemporanea il Foscolo utilizzò nella costruzione della prima ode adoperandone immagini, parole e ritmi per una poesia che, ben superiore a quei modelli e ricca di una gioia vitale, di una ispirazione fresca e sicura, tende ad una espressione lieta ed ironica, elegante e mossa ancora ben lontana dal senso profondo del valore consolatore della «aurea beltade» e della forza eternatrice della poesia che troveremo nell’ode All’amica risanata.

In quest’ode animata da un’esplosione di gioia, dalla scoperta eccitante di un lato della vita senza dramma, identificato nella bellezza femminile sentita in un ambiente di eleganza, in una traduzione mitologica sorridente e consapevole ironicamente della propria natura parziale e francamente edonistica, non c’è né un drammatico senso della caducità e della bellezza offesa come volle vedervi il Caraccio (op. cit., p. 348) con altri critici (Vaccalluzzo, Dolci, ecc.), né un valore profondo, quasi misteriosofico del mito, né d’altra parte l’ode può risolversi in una poesia da «salotto o da boudoir» (Porena, Fra Odi, Sonetti e Sepolcri, «Atti dell’Accademia dei Lincei», 1937, pp. 420-421) o in una collana di cammei (G. Mazzoni, Ottocento, 1934, p. 39) o in un madrigale secondo la trasfigurazione tassesca del Flora. In realtà l’ode ha il suo centro ispiratore in un’impetuosa, lieta scoperta della bellezza femminile come vivo esponente di una dimensione della vita (gioia, piacere, eleganza) sentita in particolari condizioni di evasione dal dramma preromantico, confortata dalla utilizzazione letteraria del gusto classicistico dell’ultimo Settecento, tradotta in un ritmo lieto, elegante e sorridente, non incrinato e non approfondito dal valore nuovo del mito che il Foscolo acquisterà all’epoca della seconda ode, né dalla coscienza di un superamento del dramma della vita che nella nuova ode darà una risonanza tanto piú complessa ed intensa all’illusione salvatrice della bellezza e della poesia.

Ed è anche quindi da rifiutate l’interpretazione psicologica del Fubini e del Momigliano che nelle loro interpretazioni pur cosí ricche e fini puntano sul valore dell’episodio centrale[11] e sull’ansia del poeta di fronte alla bellezza femminile in pericolo.

L’episodio centrale legato al pretesto dell’avvenimento mondano vive nelle stesse proporzioni eleganti, liete ed ironiche di tutta l’ode e il suo apparente realismo (effettivo limite nei punti in cui si pronuncia piú rigidamente pur nella sua natura funzionale) serve effettivamente a movimentare in maniera gustosa e persino elegantemente grottesca la linea rapida e colorita dell’inno alla bellezza come sfogo gioioso di vitalità ritrovata in una provvisoria evasione dal mondo delle passioni e degli impegni sentimentali ed ideali in cui il Foscolo doveva nuovamente immergersi nei sonetti e nell’Ortis milanese. Era un’esperienza parziale con pericoli di edonismo e di estetismo e mentre nello svolgimento della poesia foscoliana l’ode porta una prima prova di forza poetica e un impeto di vitalità fresca, essa va collocata chiaramente in una posizione ben diversa e piú immatura rispetto alla seconda ode nata dopo il tormento drammatico dell’Ortis e l’esperienza di lirica fortemente autobiografica dei sonetti del 1800-1801.
Del resto lo stesso Foscolo si rese conto dei limiti della prima ode e insieme ne confermò, meglio realizzandola, la sua tipica natura poetica quando nel 1803, nella nuova edizione di Odi e Sonetti, dall’alto della nuova ode cosí diversamente grande e complessa, apportò nell’ode del 1800 correzioni essenziali, raddrizzandone alcuni punti strutturalmente importanti, alleggerendo nella parte centrale espressioni piú rozze ed esteriori, confermando il primato del ritmo reso piú ampio e sicuro nella sua grazia sorridente.

Ed è in questa redazione nuova che piú facile è sentire vicinanze fra le due Odi: ma è proprio il lavoro di correzione fatto per alzare e precisare la vecchia redazione che ci indica ancor meglio come l’ode del 1800 abbia dei forti limiti e viva in uno stadio di poetica e di poesia lontano dalla maturità dell’altra ode, a cui pure (sia sulla direzione della letteratura neoclassica, sia come inno alla bellezza) è naturalmente premessa indispensabile, momento di anticipo nello svolgersi tutt’altro che rettilineo della poesia foscoliana.

Nella redazione del 1803 furono alleggerite le forme di realismo piú fastidioso per attuare un accordo piú poetico di vivacità ironica e di elegante bellezza, come alla strofa nona che prima era:

Sbruffan le nari, fuma

la bocca, il capo s’agita;

vola a sprazzi la spuma,

e i fren lorda e i volubili

manti, e l’incerta mano

che mal placa l’insano

e poi divenne:

Ardon gli sguardi, fuma

la bocca, agita l’ardua

testa, vola la spuma

ed i manti volubili

lorda e l’incerto freno,

ed il candido seno.

E il finale ritratto della dea malata ebbe solo allora il suo fascino elegante e suggestivo (silenzioso e pallido), mentre prima risentiva di toni melodrammatici settecenteschi piuttosto scadenti:

perché l’eterno viso

mesto, oltraggiato e pallido...

Nella misura nuova, piú ampia che il Foscolo volle dare all’ode, si introduce un’eleganza piú sicura e cosí

armoniosi accenti

dalla bocca volavano

fu corretto «dal tuo labbro volavano»), una ricerca di suono migliore e di mitica religiosità (come al v. 8 «il sacro Ida» al posto di «gl’idei monti») e soprattutto un senso piú sicuro del valore fondamentale del ritmo danzante, della visione mobile che era essenziale alla nuova ode milanese e che nella prima non era del tutto riuscito, ostacolato da durezze di inesperienza, da limiti di una concezione a quadretti savioliani e da un indugio piú facile in figurine di mitologia galante e in espressioni convenzionali di linguaggio mitico mondano. Ed ecco che tutta l’ode venne a subire un cambiamento essenziale nella sostituzione delle strofe terza, quarta e quinta, alle due originarie tanto piú anguste, raccorciate e frivole:

Or te piangon gli Amori,

te fra le dive liguri,

regina e Diva! e fiori

sull’ara di Esculapio

e sacrifizi e voti

offron mesti e devoti.

Il tesor di tue folte

ambrosie trecce agli omeri

aureo scendea; disciolte

cosí cascando ondeggiano,

se Palla di Ascra al fonte

toglie l’elmo dal fronte.

La suggestione della danza dell’ode milanese introdusse un movimento essenziale, tutto il ritmo dell’ode genovese fu da esso condotto alla sua vera funzione e tutta l’ode nella sua gioiosa vitalità elegante e sorridente, nei suoi particolari di grazia classicistica ancora intrisa di ricordi settecenteschi che ne costituiscono l’appoggio ed il limite, ne venne migliorata nel suo senso piú vero e significativo.

Or te piangon gli Amori,

te fra le dive liguri,

regina e Diva! e fiori

votivi all’ara portano

donde il grand’arco suona

del figlio di Latona.

E te chiama la danza

ove l’aure portavano

insolita fragranza,

allor che a’ nodi indocile,

la chioma al roseo braccio

ti fu gentile impaccio.

Tal nel lavacro immersa

che fiori dall’inachio

clivo cadendo versa,

Palla i dall’elmo liberi

crin sulla man che gronda

contien fuori dell’onda.

Questa visione mobile della donna dea nel suo fascino elegante, avvolta da un sorriso (cosí estraneo al fatto doloroso che resta lontano pretesto di sfumature solo apparentemente patetiche) e mossa in un ritmo trasvolante in immagini omogenee, in parole agili, senza peso sentimentale, divenne il vero centro dell’ode accentuando il movimento iniziale che nel suo incantevole scatto d’apertura

(I balsami beati

per te le Grazie apprestino,

per te i lini odorati...)

e nel suo agile suono di beatitudine di visione e di agio edonistico aveva però coerentemente alla concezione prima dell’ode un piú evidente limite di quadretto mitologico elegante e raffinato fra grazia ironica («il profano spino») e rappresentazione da tavola ercolanense

(e bagnava di lagrime

il sanguinoso petto

al morto giovinetto).

La sequenza delle strofe rinnovate e della sesta, che assume nuovo rilievo nella loro compresenza e nella correzione del secondo verso, raggiunge il punto piú alto dell’ode (insieme al finale) e il fascino della vita come lieta contemplazione della bellezza femminile («il grato della beltà spettacolo» pariniano risentito con un nuovo vigore d’animo e di poesia), se non tocca il consapevole valore salvatore della divinizzazione dell’ode milanese cosí veramente neoclassica e nata su di una intensa esperienza romantica (mentre la prima ode risente di un neoclassicismo piú tenue e di maniera, piú edonistico e non approfondito dalla matura consapevolezza del dramma romantico, ma sorretto da un senso originale e creativo del mito), viene a tradursi in una poesia fresca, originale, che nella sua forza e nella sua espressione di vitalità originalmente non artefatta (anche se mediata letterariamente e contenuta stilisticamente come abbiamo visto) implica un momento positivo nello svolgimento foscoliano, un appoggio per successive e piú mature esperienze.

Dopo la settima strofa, piú fiacca e connettiva (e anche qui nel 1803 non mancò una correzione diretta ad un nesso piú sicuro ed agile), la rappresentazione della caduta (il tema vistoso, ma in realtà secondario dell’ode) movimenta il ritmo con la cavalcata focosa e bizzarra, ricca di variazioni (e con pericolo di appesantimenti o di ricerche non essenziali): si escluda un vero “realismo”, si escluda la trepidazione del poeta ed ogni altra soluzione psicologica assente da un brano in cui l’interesse per la donna, per il suo pericolo e per il suo terrore è minimo e si senta questa parte come serie di variazioni meno ispirate, ma collegate al resto dell’ode dal ritmo lieto e sorridente che qui si concede movimenti (e figure) fra ironiche e grottesche sul filo di una emozione falsamente drammatica, effettivamente gioiosa ed elegante. Finché l’elemento mitico interviene piú decisamente nella battuta in cui il clamore della corsa e del mare si chiudono su quel gonfiarsi voglioso delle onde per inghiottire la bella donna:

e ingorde si gonfiano

non piú memori l’acque

che una Dea da lor nacque.

Estrema gustosità elegante e chiaro pericolo di un clima ironico ed edonistico. Come si sente anche nella figurina di Nettuno stilizzata ed amabilmente grottesca, nel movimento bizzarro del cavallo a cui le forme antiquate «arretrosse, rizzosse» aggiungono sotto l’apparenza drammatica e nel falso orrore sacro un colore gustoso ed ironico.

Nell’ultima parte, dopo la deprecazione solenne e sorridente (e tutta la strofa quattordicesima ripete nel suo movimento piú libero e risoluto modi settecenteschi e, in funzione ironica, aggettivi di linguaggio melodrammatico e savioliano: «discortese», «infedele», «rio consiglio», ecc.), una nuova sequenza di strofe ispirate piú direttamente al motivo della bellezza e del valore elegante del mito in cui la vitalità è sentita nel suo aspetto piú immediatamente gioioso. Appena un accenno all’ansia della donna che «spia nei guardi medici» la speranza di riavere la sua bellezza deturpata dalla caduta (e in realtà un’abilissima sfumatura che accresce il trionfo finale, non un momento dominante e drammatico), e poi la serie delle tre strofe finali rapide, chiarissime, impeccabilmente visive e musicali.

La soluzione finale in un mito esemplare che è tipica del Savioli è qui ripresa dal Foscolo con vero risultato poetico; una forza limpida ed agile (ma meno facilmente brillante che in altri punti dell’ode) costruisce la visione mobile del quadro olimpico a contrasto: prima la gioia invidiosa delle dee su cui campeggia il volto bendato di Diana (e abbiamo visto quale correzione essenziale venne ad elevare il tono di questa strofe), poi sull’accenno senza rilievo del loro pianto la ascesa all’Olimpo, trionfale, «lieta» nel suono e nelle immagini, della dea in cui la donna caduta da cavallo si è agevolmente trasfigurata.


1 I sonetti e la prima ode vennero pubblicati insieme nel «Nuovo Giornale dei letterati», tomo IV, 1802, fascicolo di ottobre (ma inviato da Milano nell’agosto), edizione riprodotta nelle Poesie di U. Foscolo, Pisa 1803. Nel 1803 (aprile) una nuova edizione (Milano, De Stefanis) includeva undici sonetti e le due Odi. Nello stesso anno (forse nel maggio, secondo Mestica) l’edizione milanese (Agnello Nobile) aggiungeva il sonetto In morte del fratello.

2 Iniziato nel 1801, continuato fino al 1803.

3 G. Chiarini, Vita di U. F., Firenze 1910, p. 112.

4 In questo scritto cosí importante per quegli anni e ricco di spunti ripresi ancora dal Foscolo (interpretazione del Machiavelli estesa a Lucano e Dante come lodativi e simulativi di lode per altri disegni antitirannici; giudizio su Pio VI ripreso poi nel bellissimo articolo londinese; giudizio minaccioso a «coloro che in repubblica mantengono i modi di tirannia», Prose, I, p. 62), il Foscolo accenna alla «rapina della lingua» fatta dai diversi dominatori (sostegno piú generale di questo atteggiamento antifrancese e antiservile): «I tanti e diversi tiranni, da conquistatori, ora usurpatori di Italia, smembravan le nostre provincie con vari dialetti e opposte leggi, e convertirono il popolo legislatore dell’universo in altrettanti vulghi schiavi di barbari dominatori» (p. 73).

5 Il Carducci parlò efficacemente di «avvolpacchiamenti di parole».

6 G. Pecchio, Vita di Ugo Foscolo, seconda edizione, Lugano 1833, p. 79. «Quest’ode cosí tersa è una vera deificazione, è una metamorfosi della Donna in Venere... Di quest’ode si potrebbe ripetere quel che si disse delle anacreontiche del Savioli: pare che il poeta fosse pagano».

7 Foscolo politico, «Belfagor», 1947.

8 La raccolta annuale di poesia, uscita a Venezia negli ultimi anni del ’700, significativa per il gusto letterario che il giovane Foscolo (collaboratore lui stesso dell’«Anno Poetico») poté sentire come “contemporaneo” nei suoi anni veneziani.

9 C.F. Goffis, Studi foscoliani, Firenze 1942, pp. 301 e seguenti.

10 Si devono ricordare per la parte centrale anche dei versi alfieriani (Oreste, IV, 62-71) utilizzati per la rappresentazione del cavallo infuriato («Sí forte batte i destrier suoi mal domi / ch’oltre la meta volano, piú ardenti / quanto veloci piú: Già sordi al freno / già sordi al grido, ch’ora invan li acqueta; / foco spiran le nari: all’aura i crini / svolazzan irti...»), ma tutta l’intonazione è nettamente diversa e la rappresentazione drammatica dell’Alfieri è utilizzata per un effetto di movimento piú che altro grottesco.

11 «L’arte non raggiunge la potenza lirica se non nella rappresentazione del cavallo sfrenato, in cui sulla visione realistica si stende come la limpidezza d’una visione lontana» (A. Momigliano, Storia della letteratura italiana, Messina 1937, p. 399).